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Presentato al Festival di Venezia assieme all'altro film di Herzog, Il Cattivo Tenete - Ultima chiamata New Orleans, My Son My Son What Have Ye Done ha trovato una distribuzione in sala a dir poco ridicola, durata circa una settimana, per poi essere sdoganato nel mercato home video (peraltro con un'edizione, almeno quella a noleggio, che suscita più di un dubbio). Eppure ci troviamo di fronte a un grande, coraggiosissimo film, che incrocia due poetiche all'apparenza distanti: quella di Werner Herzog, il filosofo dell'immagine cinematografica, colui che nel corso della sua carriera si è confrontato con l'astrazione della realtà e ha cercato di contenerla nell'immagine-cinema, riuscendo solo a sottolinearne l'indefinitezza (per chiunque volesse approfondire consiglio La conquista dell'inutile, Mondadori, e Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, Minimum Fax, a cura dell'amico Francesco Cattaneo), e David Lynch, qui in veste di produttore esecutivo, il grande sperimentatore, l'ultimo dei grandi indipendenti, un autore che guarda al cinema come fosse il riflesso del futuro. Il risultato è un'opera che, dopo una prima, disturbante visione lascia atterriti, ma che con il tempo assume un significato ben chiaro, persino nei suoi momenti di puro delirio. La storia è quella di Brad McCullum (un sempre bravo, ma sempre matto - vedi Revolutionary Road - Michael Shannon) che, dopo aver ucciso la madre, si rifugia con degli ostaggi in casa. Il detective incaricato del caso (Willem Dafoe) ricostruisce l'ultimo periodo di vita dell'assassino. Ne emerge l'immagine di un uomo ormai alla deriva nel mare magnum della follia. Herzog assume il punto di vista interno di Brad, ci mostra quello che vede, senza spiegarne la malattia né tantomeno le motivazioni. Il rapporto ossessivo con la madre, incrinato dall'arrivo della fidanzata, l'esperienza nelle Ande peruviane lo portano ad allontanrsi da un mondo che lui stesso non capisce più, un mondo che, come mostra una poetica sequenza del film, va ad una velocità diversa. Lo stile adottato da Herzog è lo stesso già utilizzato in Il Cattivo Tenente, grandangoli, steadycam, una fotografia leggermente sovraesposta nei toni chiari, ma anche contrastata. Un film che, quasi in maniera sospesa, ibrida poesia e incubo, quotidianità e straordinarietà, una pellicola difficile da recepire, perchè il sentimento che comunica non è immediatamente coinvolgente, ma a suo modo un'opera che, mescolando metacinema e teatro, spettacolo e onirismo riesce nel difficile intento di dar forma alla follia. E, grazie a questo, a emozionarci.
a. f.


Folgorati dal cinema di Refn. Dopo il post su Valhalla Rising, eccone uno sul misconosciuto (in Italia) Bronson, storia di Micheal Peterson che nella Gran Bretagna degli anni Settanta scopre la sua vocazione: diventare l'uomo più violento del Paese. Sia chiaro, mica per cattiveria. Non c'è assenza di morale nei suoi scoppi d'ira furibonda. Tutto è in funzione dello spettacolo, come dimostrano gli inserti dove il protagonista, mascherato, si presenta al suo pubblico, sul palco di un teatro. Motivo per cui sceglie anche uno pseudonimo, Charles Bronson, personaggio cinematogr
afico del periodo, emblema del disagio sociale e urbano. Il sottotesto è soltanto suggerito, scorre sotto l'epidermide del film quasi di nascosto, perchè ciò che colpisce in Bronson è innanzitutto la virulenza delle immagini, corrispettivo oggettivo di quella del protagonista. Quasi fosse un Kubrick contemporaneo, Refn si limita a filmare la storia e le azioni di un uomo che fa coincidere vita e spettacolo (cinema?) in un unico, grande sguardo. Lo dice anche Peterson: "non potevo fare l'attore", e quindi improvvisa e inventa una nuova, personale forma d'arte. Quando entra per la prima volta in carcere, Bronson piange. Ma solo perchè lo impone il copione! Refn non giudica e non pretende (nè, forse, vuole) che lo spettatore giudichi. In un vortice dove verità e finzione si alternano fino a confondersi, Refn gira un'opera ancora una volta impressionante, trovando soluzioni registiche di grande impatto, utilizzando, come in Arancia Meccanica, la musica classica (e altro) quale sfondo sonoro, e sfrutta a dovere un attore, Tom Hardy, che ad ogni sua espressione sprigiona una quantità di follia tale da contaminare il film stesso. Anche se non sembra, Bronson ha molto in comune con Valhalla Rising, sono due film talmente agli antipodi da coincidere dall'altra parte del cinema. Sono entrambi una discesa negli inferi della follia umana.
a. f.
Passato a Venezia e a Torino, che ha dedicato una bella retrospettiva al regista, Valhalla Rising è l'ultima fatica di un autore che sembra portare avanti un'idea di cinema semplice ma al tempo stesso visivamente impressionante. Alla base di tutto è (Kubrick docet) la violenza e il ruolo che essa svolge all'interno del contesto sociale. Le tematiche che avevano caratterizzato i film precedenti di Refn (la trilogia di Pusher, Fear X, Bronson) sono traslate in un'epoca lontana, in una terra praticamente deserta dove gli uomini si uccidono senza pietà e le (poche) donne che si intravedono nella pellicola sono nude e incatenate. Un guerriero muto e senza un occhio si libera dalla prigionia e vaga seguito da un ragazzino. Incontra altri guerrieri che lo convincono a dirigersi verso la Terra Promessa, Gerusalemme. Si imbarcano, ma dopo un viaggio estenuante, la meta sembra essere diversa da quella prefissata. Refn azzera il suo cinema. La struttura narrativa è ridotta all'osso (forse troppo), i dialoghi pressocchè inesistenti, gli attori praticamente non recitano, stanno fermi, come statue, in posa per inquadrature costruite ad hoc. Sembra un'opera malriuscita, invece il risultato è davvero impressionante. Tutto concorre a creare un'atmosfera di livida inquietudine: dalla fotografia desaturata alle atmosfere sospese, dalla violenza iperrealista e a tratti insostenibile alla musica distorta che accompagna immagini oniriche (e non) di forte impatto. Refn mescola le carte e sforna un film che si regge unicamente sulla potenza magnificente della visione. Partendo da una base sostanzialmente fantastica e irreale, Refn ha la possibilità di dar libero sfogo alla propria visionarietà, grazie agli inserti onirici che sono lampi sul futuro dei personaggi. Il mistero e una piccola riflessione sulla religione fungono da collante ed è curioso che in una terra politeista che si sta trasformando in cattolica, i personaggi in cerca di Gerusalemme si ritrovino in un luogo che non conoscono ma che noi sappiamo essere centro nevralgico di culture animiste. Chi si aspetta il film d'azione violenta ne rimane deluso. Chi si aspetta un film d'avventura, pure. I puristi della struttura narrativa si astengano dal vederlo: qui l'unica cosa che conta è lo sguardo. E moti del cuore che suscita.
a. f.


Minami, membro di una famiglia yakuza, deve accompagnare il suo amico e mentore Ozaki, ormai in preda ad evidenti squilibri, in una discarica di Nagoya per farlo uccidere. Tormentato dai sensi di colpa Minami accetta l'incarico, ma nel corso del viaggio Ozaki muore a causa di un incidente automobilistico. Il corpo di quest'ultimo sparisce inspiegabilmente e per Minami inizia un disperato e frustrante viaggio alla ricerca del cadavere.
Minami si muove in un mondo sospeso tra sogno, inconscio e realtà, popolato da personaggi grotteschi e ambigui. Sembra procedere per inerzia, incapace di comprendere e reagire, è preso per mano (letteralmente) e condotto in un abisso di follia senza precedenti. Takashi Miike fonde alcune storie classiche e ne trae linfa per una storia sorprendente, prende il Giappone di Ozu e lo immerge (di nuovo letteralmente) nella sostanza delle ossessioni di Bunuel e Lynch. Non a caso Gozu è stato spesso paragonato a Twin Peaks; molti ed evidenti infatti sono i punti in comune, in particolare nella sezione centrale, ma antitetico è l'atteggiamento del protagonista, come pure il destino finale.
Un tono grottesco e surreale pervade l'intero film, con alcuni momenti ironici (tutta la prima parte) incastrati in una climax di suoni e visioni ossessivi e malati. Raramente un film narrativo è risultato così disturbante. Kafka, Omero, Carroll, Freud, Kokoschka, Tsukamoto, i riferimenti spaziano tra le arti e i generi, i temi affrontati sono profondi e personali, il risultato è sorprendente e decisamente originale. Gozu è un grande film, lento, pesante, pieno, discordante. Non strizza l'occhio all'avanguardia, ma si colloca nel limbo che separa il cinema dall'arte pura. L'epilogo, splendidamente incoerente e inaspettato chiude il cerchio e sembra al contempo rimettere tutto in discussione.

E.T.

Prima di entrare nella leggenda grazie al geniale South Park, Trey Parker e Matt Stone hanno fornito ampi indizi del loro talento muovendosi nei territori più indipendenti (e liberi) del cinema statunitense. Si sono formati nella scuola di Lloyd Kaufman, una delle figure più brillanti e autentiche dei nostri tempi e una sorta di Roger Corman dell'home video. Kaufman è il padre fondatore della Troma, una casa di produzione e distribuzione cinematografica impegnata da oltre trent'anni nella diffusione di pellicole (o meglio videotape e dvd) indipendenti. Sopravvivere per tre decenni producendo e vendendo film sconosciuti girati e interpretati da perfetti sconosciuti non è per nulla facile, e questo dovrebbe essere sufficiente a spiegare la grandezza di Kaufman e soci. Ma per i più scettici aggiungiamo che molti autori e divi sono cresciuti in questa gabbia di matti (Robert De Niro, Oliver Stone, Brian De Palma, Kevin Costner) e molti altri ne sono stati fan sfegatati. Anche Parker e Stone, dicevamo, sono stati plasmati da Kaufman e hanno realizzato grazie a lui il loro primo lungometraggio, Cannibal! The Musical (opera che sarà recensita prossimamente).
Forte di questa esperienza Parker si è cimentato in Orgazmo, un assurdo e divertentissimo script che mischia porno, arti marziali e fumetti in un clima totalmente demenziale e irrispettoso, comunque più misurato rispetto alla serie tv o al più recente Team America. Un giovane mormone viene assunto per dare il volto (solo quello) ad un supereroe (Orgazmo appunto) protagonista di un film porno. Sfortuna vuole che il film diventi in breve tempo uno dei massimi successi della storia del cinema, con tutti gli inconvenienti connessi. Come se non bastasse l'ingenuo mormone (lo stesso Parker) si ritrova in un mezzo ad una storia di mafia e decide quindi di assumere realmente le vesti di Orgazmo in coppia con il fido Choda Boy, collega sul set del film porno e ingegnere del MIT di Boston a tempo perso. Lieto fine spassoso e assicurato.
Per un'ora e mezza si ride molto e di gusto, con alcuni momenti di eccellenza pura, al livello della migliore commedia demenziale americana (Tutti pazzi per Mary, il primo American Pie, La rivincita dei nerd e addirittura Animal House). Davvero irresistibile il gruppo di Mariachi nudi che al party in piscina intona un trascinante inno allo "strumento del mestiere" degli attori, la carrellata di film epici sulla vita di Gesù (Jesus of Nazareth, Jesus Scissorhands, Pulp Jesus, Raging Jesus, etc.) che la fidanzata del protagonista consulta in una videoteca e l'interpretazione di Ron Jeremy, una leggenda vivente nel mondo del porno (reale).
E' evidente come il film anticipi molti aspetti di South Park, che Parker e Stone stavano peraltro preparando contemporaneamente, ma è altrettanto palese come Orgazmo evidenzi più compiutamente le doti dei due autori, più vincolati dalle esigenze produttive di un live action movie, ma anche meno sbracati e più riflessivi. Gli omaggi e i riferimenti sono numerosi e ripetuti, come in molto cinema degli anni 90, da Tarantino ai Farrelly, dai Coen ai b-movies, ma non renderebbe giustizia alla goliardia degli autori un'analisi seriosa e accurata della pellicola. Molto più opportuno il consiglio di gustare il film in compagnia e disposti a lasciarsi andare ad una grassa risata.

E.T.


Il prescelto è il remake di un film "maledetto", The Wicker Man (1973, di Robin Hardy), pellicola di culto che ha trovato enormi difficoltà di distribuzione, soprattutto in Italia. Il film diretto da Neil laBute nel 2006 potrebbe far pensare all'ennesima operazione commerciale che ha in Nicolas Cage il suo volto-immagine più eloquente. In realtà Il prescelto riesce a essere un'opera di grande rispetto, un horror d'atmosfera che sembra catapultato da un altro tempo e da un'altra idea di cinema, a partire dalla tecnica utilizzata: dissolvenze incrociate, flashback in bianco e nero, musica, firmata dal grande Angelo Badalamenti, storico collaboratore di Lynch, che richiama il miglior Bernard Hermann. Roberto Curti nel suo recente Demoni e Dei. Dio, il diavolo e la religione nel cinema horror americano (Lindau, 2009) sottolinea come il film punti innanzitutto a distruggere l'idea stessa di eroe che domina nel cinema contemporaneo. Ma si potrebbe anche riflettere sulla società matriarcale spietata e dotata di un proprio percorso storico messa in scena da LaBute, non nuovo ad analisi di questo genere (vedi Nella società degli uomini). Ciò che più piace in questo lavoro dalle poche pretese è l'atmosfera distorta che riesce a trasmettere allo spettatore, una dimensione che traspare nel film e che inquieta non poco. ma anche un'idea di cinema ormai scomparsa, con tutto ciò che ne comporta: un senso malinconico domina lo sguardo di chi si appresta a vedere questo film e chi, come me, trova rivoluzionario il cinema horror politico-sociale degli anni Settanta. C'è chi ha criticato l'assenza di violenza, e chi ha sottolineato l'eccessiva prudenza nella messa in scena, ma Il prescelto si discosta notevolmente dagli horror di oggi, dal sensazionalismo facile e dall'impatto visivo che contraddistingue il postmoderno. Da vedere senza pregiudizi e senza troppe attese, commerciali, intellettuali e simili. Talmente fuori dal tempo da non essere stato capito, in primis da quella critica ormai assuefatta a operazioni finto-estreme.
a. f.
Non capita spesso che un film riesca a creare in modo univoco e ad imporre dal nulla un nuovo genere cinematografico. Snuff, film dei coniugi Findlay, è diventato molto celebre per aver dato vita al filone degli Snuff Movies, pellicole in bilico tra realtà e finzione, in cui atti violenti o estremi sono (o dovrebbero essere) ripresi dal vero ad insaputa di parte del cast. Per un approfondimento sul genere si veda qui (evitando possibilmente di leggere la deriva demenziale presente nella seconda parte). Per conoscere le vicende produttive di Snuff, invece, consiglio il sempre ottimo exxagon.
Snuff gode di una pressochè unanime pessima critica, che va ben oltre i reali demeriti. Viene bollato come un film senza senso e qualità, rimarcabile solamente per l'ultima (e posticcia) scena, un film di unico interesse storico. Se questo è in parte vero, c'è da dire che si tratta come minimo di un'analisi un po' semplicistica e superficiale. Non è necessario avere una conoscenza enciclopedica di avanguardia e exploitation per accorgersi che queste hanno spesso prodotto risultati di gran lunga peggiori.
Il film narra le vicende di un gruppo di assassini ispirato alla Famiglia di Charles Manson, qui rinominato Satan, e può essere sommariamente diviso in due parti. L'inizio risente in maniera evidente dell'influsso di Russ Meyer (Faster Pussicat! Kill! Kill!) per quanto riguarda temi e ambientazione e dell'esperienza nel mondo del porno e nel gore degli autori per tecnica e linguaggi. C'è un uso abbondante di primissimi piani, montaggio alternato, soggettive e chiari rimandi a rapporti di tipo BDSM. In questo senso il film è molto moderno, tuttavia l'intera sezione risulta oltremodo noiosa e approssimativa.
La seconda parte è invece decisamente più interessante e presena alcune buone scene (su tutte la strage nello spaccio, a metà tra il teatro grottesco e ancora Russ Meyer), il celebre e già citato "gran finale" e una sequenza da leggenda, quella che mostra il rito di iniziazione di Angelica, una delle ragazze di Satan. Si tratta di una scena strepitosa ed estremamente violenta, un pezzo di grande cinema, difficilmente descrivibile. Una sequenza che pone il film nella storia dell'avanguardia, a prescindere dai risvolti storici.

Jesus Franco mette in scena la storia di Jack lo squartatore, sfruttando un cast e una produzione di tutto rispetto. La storia è nota; un misterioso assassino terrorizza Londra trucidando diverse prostitute dei quartieri poveri. Franco mostra sin dall’inizio il volto dell’assassino, dedicandosi all’analisi della natura e dei tormenti dei protagonisti e rifiutando di sfruttare il mistero e il thrilling insiti in opere di questo genere. La scelta è rischiosa e onestamente non paga fino in fondo. La speculazione sulla psicologia dello squartatore, cuore del film, rimane abbozzata e non colpisce più di tanto. L’assassino è un medico di animo nobile, tormentato dalla figura della madre incestuosa, a sua volta prostituta. Una direzione un po’ scontata che non aggiunge granché allo spessore della storia. Così come non funziona fino in fondo la scelta di un unica attrice per le interpretazione della madre dello squartatore e dell’amante del poliziotto a capo delle indagini. Più interessante la sottile specularità dei due protagonisti maschili, ossessionati da un’ingombrante figura femminile e incapaci di superare il conflitto latente.

Se ai difetti già sottolineati si aggiunge una sceneggiatura che varia in modo inconcludente tra diversi generi e la quasi totale assenza di pathos il risultato non può lasciare molto soddisfatti. Inoltre va sottolineato come il soggetto non rispecchi in alcun modo la reale vicenda storica. In questo senso, per una volta, il titolo italiano (“Erotico profondo”) pare quasi più azzeccato, dal momento che la storia potrebbe aderire a mille altri personaggi portati sullo schermo.

Detto questo, il genio di Franco riesce comunque a regalare alcune grandi sequenze (l’inseguimento nel bosco, le canzoni nel bordello, la sequenza onirica e lo splatter che ricorda molto Herschell Gordon Lewis) e l’atmosfera che pervade il film è costruita in modo impeccabile, come del resto l’ambientazione, una visione sospesa tra la Londra di Dickens e la Venezia di Tinto Brass (in realtà gli esterni sono girati a Zurigo). Klaus Kinski, non al massimo splendore ma comunque immenso, riesce a donare una grande profondità allo squartatore, con sguardi e movimenti misurati e profondi. Il film pesa in larga misura sulle sue spalle e l’interpretazione è efficace e credibile. Molto convincente anche il finale tratteggiato da Franco, lineare e apatico, tuttavia emozionante e solenne.

In definitiva un film non imperdibile, ma comunque decisamente superiore alla media di molti film attualmente in sala.


E. T.