Offscreen: Bronson di Nicolas Winding Refn (2008)
Folgorati dal cinema di Refn. Dopo il post su Valhalla Rising, eccone uno sul misconosciuto (in Italia) Bronson, storia di Micheal Peterson che nella Gran Bretagna degli anni Settanta scopre la sua vocazione: diventare l'uomo più violento del Paese. Sia chiaro, mica per cattiveria. Non c'è assenza di morale nei suoi scoppi d'ira furibonda. Tutto è in funzione dello spettacolo, come dimostrano gli inserti dove il protagonista, mascherato, si presenta al suo pubblico, sul palco di un teatro. Motivo per cui sceglie anche uno pseudonimo, Charles Bronson, personaggio cinematografico del periodo, emblema del disagio sociale e urbano. Il sottotesto è soltanto suggerito, scorre sotto l'epidermide del film quasi di nascosto, perchè ciò che colpisce in Bronson è innanzitutto la virulenza delle immagini, corrispettivo oggettivo di quella del protagonista. Quasi fosse un Kubrick contemporaneo, Refn si limita a filmare la storia e le azioni di un uomo che fa coincidere vita e spettacolo (cinema?) in un unico, grande sguardo. Lo dice anche Peterson: "non potevo fare l'attore", e quindi improvvisa e inventa una nuova, personale forma d'arte. Quando entra per la prima volta in carcere, Bronson piange. Ma solo perchè lo impone il copione! Refn non giudica e non pretende (nè, forse, vuole) che lo spettatore giudichi. In un vortice dove verità e finzione si alternano fino a confondersi, Refn gira un'opera ancora una volta impressionante, trovando soluzioni registiche di grande impatto, utilizzando, come in Arancia Meccanica, la musica classica (e altro) quale sfondo sonoro, e sfrutta a dovere un attore, Tom Hardy, che ad ogni sua espressione sprigiona una quantità di follia tale da contaminare il film stesso. Anche se non sembra, Bronson ha molto in comune con Valhalla Rising, sono due film talmente agli antipodi da coincidere dall'altra parte del cinema. Sono entrambi una discesa negli inferi della follia umana.
a. f.
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