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Offscreen: Alice in Acidland di John Donne (1968)



Guardare un film senza avere alcuna conoscenza della trama e del regista a volte può regalare soddisfazioni impagabili. Alice in Acidland mi è stato presentato come una versione psichedelica del romanzo di Lewis Carroll, una rappresentazione tossica del mondo delirante immaginato dal geniale scrittore inglese. Una premessa interessante, considerando la natura deviata e allucinata dei due romanzi su Alice.

Ma la visione non è stata affatto priva di sorprese. L
a sequenza iniziale presenta egregiamente la storia; e lo fa partendo dalla fine. Alice, giovane ragazza di una famiglia borghese, è stata sconvolta dal suo viaggio nella terra degli acidi. Bianco e nero, primissimo piano, voce fuori campo; semplice ma evocativo. Segue un bel cartello con il titolo del film in perfetto stile psichedelico. Fin qui tutto bene, ma ora iniziano le sorprese. Alice viene avvicinata da una giovane hippy e invitata ad una festa in piscina. Qui viene introdotta ai piaceri dell’LSD e del sesso. Entriamo in un abisso di sexploitation. Assecondando gli stereotipi più ovvi il film mostra abbondanza di nudi femminili in un’atmosfera surreale. Sembra di assistere ad un incrocio tra un film porno tedesco, una rappresentazione di living theatre e alcune pellicole del primo Warhol. Il tutto ripreso e montato da un ragazzino alle prime esperienze, con tagli in asse sorprendenti e movimenti di camera incerti e improvvisati. L’effetto complessivo è senza dubbio originale.

E non mancano neppure momenti di inconsapevole comicità: le figure che occupano in maniera goffa e convulsa lo schermo sembrano ispirarsi ai grandi comici del muto, Chaplin e Keaton su tutti. La voce fuori campo riecheggia quella del cinegiornale e porta alla memoria i peggiori l
avori di Ed Wood, il perfezionista dell’approssimazione. E a ben vedere Alice in Wonderland pare proprio il frutto di un unico giorno di lavoro, un opera senza trama e senza profondità, realizzata per stimolare i bassi istinti degli spettatori. Non c’è molto altro fatta eccezione per gli amplessi simulati in maniera ampollosa, solo i trasferimenti da un luogo all’altro.

Ma ancora una volta un inatteso cambio di registro modifica la prospettiva e il
giudizio finale sulla pellicola. Nel corso di una festa Alice incappa in un bad trip e viene travolta da visioni e allucinazioni, che aprono un inquietante scenario sul passato del gruppo di hippy che la circonda. Si passa repentinamente dal bianco e nero al colore, il montaggio assume finalmente un briciolo di significato e il ritmo cresce. Niente di trascendentale per carità, ma i rimandi al surrealismo sono evidenti e, volendo esagerare, si possono scorgere alcune idee che non avrebbero sfigurato in qualche film di Lynch. Riprendendo e allargando l’immagine iniziale, ora a colori, il film si conclude con una sequenza di forte impatto visivo ed emozionale, preludio al cartello finale che riporta lo spettatore ad un’atmosfera di pura goliardia.

Una nota di merito va spesa senza dubbio per la colonna sonora, un incessante tappeto musicale di blues, soft jazz e beat, intessuto con frammenti in loop di frasi estrapolate dal film. Lavoro notevole per un film dal costo prossimo allo zero.


E. T.