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A dispetto di quanto si possa pensare, 30 giorni di buio non è un brutto film. Tratto da una serie di fumetti scritti da Steve Niles e disegnati dall'artista Ben Templesmith (già disegnatore della serie Hellspawn), il film racconta di una cittadina sperduta nell'Alaska che, ogni anno, affronta un mese di notte continua. In quell'occasione alcuni terribili vampiri approfittano della situazione per fare una strage. I pochi sopravvissuti tenteranno di resistere fino all'alba. Girato da David Slade e con la bella fotografia di Jo Willems, che satura i colori per meglio contrastarli con il bianco della neve (c'è chi vi ha visto riferimenti ai quadri di Bacon), la pellicola non rappresenta alcuna novità nell'ambito horror-vampiresco. Persino l'ambientazione nordica ha già trovato migliori risultati altrove (La Cosa di Carpenter e The Last Winter di Larry Fessenden). Ciò che più ci interessa è la volontà di dar corpo all'ennesima contaminazione di generi, che sembra ormai rappresentare il futuro dei cosiddetti film di genere. All'interno di un apparato horror, 30 giorni di buio gode di una struttura interna che richiama esplicitamente il western: una cittadina isolata, il vuoto del ghiaccio che sembra quello del deserto, l'attacco dei pellerossa/vampiri, le costruzioni delle case (che ricordano quelle di molti western). Addirittura si arriva al confronto finale tra lo sceriffo e il capo dei cattivi. In pochi hanno colto questi riferimenti metatestuali, che di fatto rappresentano i tratti di maggior rilievo del film. Oltre a questo, stupisce la scelta di rinunciare per buona parte agli effetti digitali per tornare al buon vecchio make-up, così come risultano essere interessanti alcuni momeni registici che, paradossalmente, sono essere tragicamente classici: una ripresa dall'alto della strage e la sequenza finale dell'alba, intrisa di un dolente romanticismo.

a. f.

Spacciato per una commedia frizzante, l'ultimo film del veterano Mike Nichols è in realtà un'interessante riflessione sulle dinamiche politiche che hanno portato all'attuale situazione internazionale. Nel raccontare le vicende del deputato Charlie Wilson (Tom Hanks), perfetto sconosciuto che assieme a una ricca signora delTexas (Julia Roberts) e un funzionario della CIA (un grande Philip Seymour Hoffman) ha finanziato i ribelli afghani per combattere gli invasori russi, Nichols ha attuato un approccio brioso, facendo leva soprattutto sulla schoppiettante sceneggiatura di Aaron Sorkin. Proprio grazie a quest'ultimo, il film vanta una serie di dialoghi che spaziano da un taglio satirico/grottesco a quello tragico. Funziona tutto: la recitazione è impeccabile, la regia (anche se un po' anonima) fa il suo lavoro, l'accompagnamento musicale e la suddetta sceneggiatura formano l'asse portante ideale per questo film insolito nel panorama hollywoodiano. Purtroppo proprio la sua struttura e il modo di raccontare quegli eventi sembrano essere riservati agli addetti ai lavori, a chi la Storia la conosce e può constatarne una sua adeguata messa in scena. Certo, Nichols non ha pretese storicistiche, ma come si diceva il modus operandi ha in qualche modo smorzato tutto l'apparato emozionale della pellicola, lasciando il tutto un po' "freddo". Questo è un difetto non da poco, che tiene lontano lo spettatore dai sentimenti dei personaggi, da ciò che essi provano, rendendoli elementi quasi "impersonali" del profilmico. Raro esempio di film che analizza la situazione di oggi (11/9 compreso) con piglio esplicitamente autocritico.
a. f.



Non mi piacciono le storie artificiose. A me piacciono le cose vere.

(Werner Herzog in Julien donkey-boy)


Viene da sorridere quando alcuni definiscono "sperimentali" pellicole come 300, A scanner darkly, o Polar Express, nelle quali l'abuso di effetti speciali e computer grafica nasconde un approccio tradizionale al cinema e alla scrittura. Se vogliamo sono allora molto più sperimentali, per rimanere a Hollywood, le visioni di registi come Gondry o Jonze, che piegano le potenzialità del digitale alla loro visione del mondo. Allo stesso modo appare fuori luogo etichettare come "indipendenti" molte delle pellicole marchiate Sundance, festival che ogni anno si afferma sempre più come stile che non come laboratorio creativo o vetrina di idee.
Julien donkey-boy, secondo film dell'allora 26enne Harmony Korine, è un film indipendente e sperimentale. In senso autentico. Girato secondo le rigide regole di Dogma 95, il film va ben oltre e stravolge le tradizionali nozioni di ripresa, montaggio e narrazione. Già con Gummo, del resto, il giovane regista aveva dimostrato di possedere un concetto personalissimo di sceneggiatura e tecnica di regia. Ma qui si va oltre. La successione cronologica appare incoerente, i tagli di montaggio sono estremi e imprevedibili (in effetti il montaggio non sembra essere un elemento dinamico, di ritmo, ma proprio un linguaggio a parte, o meglio una parte di linguaggio), le scene sono prive di un carattere descrittivo o significante (un po' come in alcuni lavori di Cassavetes o nel primo Jarmusch), ma non risultano mai vuote o statiche, neppure nelle sequenze costruite con successioni fotografiche. La macchina da presa descrive efficacemente il disagio mentale dei protagonisti e il degrado sociale della comunità (si legga Stati Uniti), avvolgendo e circondando i personaggi da molte angolazioni (fino a 50 inquadrature per ogni personaggio, anche con camere nascoste). Korine sfrutta appieno le opportunità offerte dalle nuove videocamere, creando una nuova estetica e un nuovo linguaggio. Come fa notare (qui) Lucio Basadonne
Korine porta all’eccesso tutto questo creando, con l’aiuto di Antony Dod Mantle (già direttore della fotografia di Festen) un immagine ai limiti della comprensibilità (desaturata e sgranata) e utilizzando tutti gli effetti delle telecamere digitali come fermi immagini, shutter, strombo e sovraimpressioni.

Non si tratta di scelte impulsive nè di sperimentazione fine a se stessa. Il regista esplora i limiti e le potenzialità della camera per creare un nuovo tipo di cinema, un po' come fece Jimi Hendrix con la chitarra elettrica negli anni '60. E adatta il nuovo linguaggio tecnico alle proprie esigenze narrative. Ad esempio utilizza effetti simili per creare parallelismi tra i personaggi, come tra Julien e la sorella, oppure effetti che accentuano la distanza e l'incomunicabilità tra i personaggi, come per Julien e il fratello wrestler, o ancora effetti che descrivono i disturbi di Julien.

Ma aldilà dell'aspetto tecnico quello che colpisce, proprio come in Gummo, è l'immagine decadente e sterile della società americana. Relazioni familiari precarie o morbose, disgregazione della piccola comunità, ambiente desolato. Non c'è simbolismo o rappresentazione. E' tutto reale. Più reale e penetrante di tanti documentari alla Micheal Moore. E' l'America della recessione (pre-Bush, pre-undicisettembre, pre-crisi economica). Fa riflettere sull'abisso che esiste negli USA tra politica e popolo, un concetto difficile da comprendere per noi europei. Fa riflettere sulla fede, sempre meno intima e sul ruolo della chiesa, sempre più ambiguo. La famiglia, la base ideale (e ideologica) della giovane America, è un campo di battaglia (letteralmente, qui come in Gummo), terreno di scontro e incomprensione. Il padre (Herzog, splendida incarnazione dell'America più autoritaria e insensibile) insulta costantemente i figli e li costringe a picchiarsi e ad umiliarsi. La relazione che appare più genuina e sana è in realtà la più perversa: Julien e la sorella, due sensibilità affini e complementari, sono colpevoli di un delitto incestuoso e in attesa di un bambino; inoltre partecipano alla rievocazione telefonica della madre morta (una scena toccante in modo drammatico). Nessuno quindi rappresenta il bene. Ognuno è in qualche modo corrotto dall'ambiente circostante. Neanche la tragedia che chiude il film (e che incombe su di esso sin dall'inizio) sembra poter cambiare le cose. L'America di Korine è questa, e niente può arrestare il suo declino.
Come abbiamo detto all'inizio, fa sorridere il paragone tra Julien donkey-boy e i film in stile Sundance; basti pensare a due recenti successi come Lars e una ragazza tutta sua e Little miss sunshine, storie di famiglie disgregate e disturbate. Inutile dire a chi va la nostra preferenza.

E. T.